Dialetti bolognesi montani alti

Con dialetti bolognesi montani alti, secondo la classificazione del Vitali, si intendono quelle sottovarianti del dialetto bolognese parlate perlopiù nella fascia montana dell'Appennino bolognese al confine con la Toscana. Vengono definiti alti perché sono diffusi prevalentemente in quota (Lizzano in BelvedereGranaglioneBadiCastiglione dei PepoliSambuca Pistoiese e alcune frazioni del comune di Porretta Terme come Castelluccio e Capugnano) mentre nelle aree valligiane (es. Porretta Terme) sono più diffuse le varianti montane medie a causa dei contatti storicamente più frequenti con la città di Bologna.

Caratteristiche fonetiche

Presentano caratteristiche fonetiche, morfo-sintattiche e lessicali che li avvicinano di più al toscano che al bolognese. Ecco le caratteristiche che avvicinano questi dialetti a quelli di area toscana:

  • Conservazione delle vocali finali: gatto, sasso (ma cadono nella frase: un gatt rósso «un

gatto rosso»);

  • Mancata distinzione fra vocali lunghe e brevi, poiché le vocali accentate sono sempre

foneticamente lunghe (tranne in posizione finale, dove possono essere lunghe o brevi dando luogo ad alcune coppie minime: fâ «fai» vs. fà «fa», interpretabili anche come fàa vs. fà);

  • Le a del lat. volg. si conservano sia in sillaba aperta che chiusa: fare (in alcuni dialetti fàa),

palo;

  • i, u del lat. volg. si conservano sia in sillaba aperta che chiusa: filo, lìsscio, muro, brutto;
  • e, o del lat. volg. si conservano sia in sillaba aperta che chiusa: vérde, sécco, sóle, rótto (in

alcuni dial. vérdo, sólo);

  • Conservazione di /c, G/: cénndre, génnero (o génndro);
  • Conservazione di /ts, dz/ affricate: pózzo, mèzzo;
  • Conservazione di /S/: péssce (in alcuni dial. pésscio), cusci.

D'altronde, gli ultimi due punti sono casi di conservazione di vecchi elementi settentrionali:

  • Conservazione di /Z/: pazge, cuzgi;
  • Conservazione di /kj, ghj/: mùcchjo, ùnghja (in alcuni dial. uggna) contro le altre varianti bolognesi di moccia e onngia.

Tuttavia vi sono altre importanti caratteristiche che accomunano i dialetti montani alti ai dialetti di tipo bolognese e quindi di tipo gallo-italico:

  • Frequente sincope vocalica: lizzanese bdócchjo, bźare, g'lare, mlõ, vludo «pidocchio,

pesare, gelare, melone, velluto», verso il bol.: bdòc, bśèr, źlèr, mlån, vlûd, e il bol. mont. m.: bdøcc', bźe, źle, mlõ, vlûd;

  • È, Ö del lat. classico in sillaba aperta hanno dato in genere /(j) E, wO/ in Toscana e in

italiano, mentre troviamo e, o chiuse /e, o/ (ee, oo) in lizz.: méle, préte, córe, fógo, róda «miele, prete, cuore, fuoco, ruota». Come il lizz. si comporta un bel pezzo di Emilia, anche se proprio in area bolognese le cose sono più complicate (in bolognese cittadino abbiamo mêl, côr, rôda con /ee, oo/ ma prît, fûg con /ii, uu/ dovuti ad antichi /je, wo/; in montano medio troviamo prêt, côr, fôg con /ee, oo/ ma mel, roda «ruota» con e, o intermedie);

  • Sonorizzazione di /p, t, k/ posvocaliche in /v, d, g/: lizz. savére, cavra, séda, amigo, figo

«sapere, capra, seta, amico, fico», cfr bol. savair, chèvra, saida, amîg, fîg;

  • Caduta delle doppie consonanti, tranne dopo accento: lizz. gallo «gallo» ma galina

«gallina»; qualcosa di simile è successo in bol. e mont. m., poiché in questi dialetti la a lat. volg. di sillaba chiusa è diventata lunga, gâl, mentre come abbiamo visto quella di sillaba aperta palatalizza: questo diverso trattamento presuppone una conservazione, per un certo tempo, delle doppie consonanti; inoltre le doppie lizzanesi sono più brevi di quelle italiane, una via di mezzo fra doppie e semplici che ci dovette essere anche in bol. antico prima della caduta delle doppie («gallina» si dice galéṅna /ga'le˙na/ in bolognese e galénna /ga'len-a/ nei montani medi, con la frontiera sillabica tra /n/ e /a/ a dare un'impressione di allungamento);

  • Dopo accento, raddoppiamento sistematico di m, frequente di l, r, v: lizz. primma,

fummo, famme, mullo, argallo, magarra, el bévve «prima, fumo, fame, mulo, regalo, magari, beve»; contro il bolognese prémma, fómm, fâm, móll, regâl, magâra, al båvv: per via della caduta delle doppie, l'antico raddoppiamento di /m, l, r, v/ in bol. si vede solo dal fatto che le vocali che precedono hanno il trattamento di sillaba chiusa; lo stesso accade in rocch.: prémma, fómm, fâm, móll, argâl, magâra, e b™vv;

  • Presenza delle vocali nasali: lizz. vin, e fã, cã, bõ, õ «vino, facciamo, cane, buono, uno», quando in montano medio nei casi analoghi si può verificare la dittongazione: véi, a fain, chã, bõ, õ. Anche questo è un fenomeno di conservazione, poiché i bolognesi vén, a fän, can, bån, ón con n velare /˙/ si spiegano proprio con una fase di nasalizzazione successivamente regredita, in pratica /éné=–=éV/ (V indica vocale).
  • A differenza dei dialetti bolognesi montani medi l'articolo singolare maschile è al come in bolognese cittadino e non e come in montanaro medio: nel dialetto della media Valle del Reno e di Rocca Pitigliana avremo perciò e gàtt e còrr, in lizzanese al gàtto al còrre, in cittadino Al gât al cårr.
  • La particella ridondante viene spesso tralasciata, a differenza del bolognese cittadino che usa brîṣa o mégga e del montanaro medio. Solo il lizzanese utilizza talvolta brîṣga.

Letteratura

Tra questi idiomi quello dotato di una letteratura più fiorente e più frequentemente oggetto di studi è il dialetto pavanese, parlato nell'Alta Valle del Reno, mentre quello con il numero più alto di parlanti (preso ad esempio in quest'analisi) è il dialetto lizzanese, parlato a Lizzano in Belvedere.

Esempi di testo

Come esempio di testo in un dialetto bolognese montano alto riporteremo qualche battuta della celebre Casina di Plauto tradotta e riadattata in pavanese da Francesco Guccini:

  • CELESTIN- Ch'i 'n possa stare da per mì, quand'i n'ho vòiia, per

parlare di mé afari e pensare, sénza che tì t'mé stia sémpre d'atorno?

  • CALIN- Perché i son convinto d'vgnirte sémpre drédo, dovunque

t'andrà. Diolai! Anche se t'volessi andare a impicarte, i t'véggno drédo. Fa 'n po' i to conti, se t'potrà o no, con tutto al to armesdare, portarte via Zucarin sénza che mì a l'sappia, se t'la toli per sposa, comme t'va fare.

  • CELESTIN- Ma tì, al che t'ha da fare con mì!
  • CALIN- Al ché t' di', bìscaro?! Perché t'véni a impestare quì in

Pavna, spinaiolo da do soldi?

  • CELESTIN- Perché a m'garba acuscì.
  • CALIN- Perché 'n té sta' d'là da l'acqua, in ti to campi? Perché

'n té fa al lavoro chi t'hati ditto 'd fare, sénza introgolarte int'al cose dal paese? Artorna (1) in campaggna, artorna 'd fùria in ti to campi! .

  • CELESTIN- Calin, i 'ti m'a l'son scorda' quello ch'a i ho da fare;

in campaggna a i è un ch'a l'fa tutto per ben. S'i riésscio a fare quel ch'i soli vgnu' per fare, s'i riesscio a sposarme la patòzza ch'a t'ha inamora' anca tì, ch'la bella patòzza d'Zucarin, ch'l'é serva insémm'a tì, quand'i l'avrò porta' in campaggna mégo, t'vedrà ch'i restarò per sémpre int'i mé campi.

Riferimenti

  • Nuèter 65, 2007, pp. 52–58, versione 2 del febbraio 2008

 

 Tratto da wikipedia